Liliana Room

Testimonianze

Una delle più autorevoli Voci della Memoria italiana, Liliana Segre – tra le fondatrici del Memoriale della Shoah di Milano – testimonia con eccezionale lucidità la propria esperienza di giovane ebrea (aveva 14 anni) deportata ad Auschwitz.
Liliana venne liberata il primo maggio 1945 al campo di Malchow, un sottocampo del campo di concentramento di Ravensbrück. Dei 776 bambini italiani di età inferiore ai 14 anni che furono deportati al Campo di concentramento di Auschwitz, Liliana è tra i soli 25 sopravvissuti.
Liliana tentò assieme al papà e ai suoi nonni prima di nascondersi e dopo l’8 settembre 1943, di fuggire in Svizzera; catturati alla frontiera subirono l’umiliazione del carcere e poi la deportazione ad Auschwitz-Birkenau, dove rimase sola ad affrontare l’inferno del campo di sterminio e del lavoro forzato; sopravvissuta ad Auschwitz e alla marcia della morte, Liliana fece, unica della sua famiglia ritorno a Milano.
Dopo lo sterminio nazista visse con i nonni materni, di origini marchigiane, unici superstiti della sua famiglia. Nel 1948 conobbe Alfredo Belli Paci, cattolico, anch’egli reduce dai campi di concentramento nazisti per essersi rifiutato di aderire alla Repubblica Sociale. I due si sposarono nel 1951 ed ebbero tre figli.

Della sua esperienza, per molto tempo, Liliana Segre non ha mai voluto parlare pubblicamente. Ha deciso di interrompere questo silenzio nei primi anni ’90 e da allora si è resa disponibile a partecipare a decine e decine di assemblee scolastiche e convegni di ogni tipo per raccontare ai giovani la propria storia anche a nome dei milioni di altri che l’hanno con lei condivisa e che non sono mai stati in grado di comunicarla.

IL VIAGGIO

di Liliana Segre

Negli ultimi giorni di gennaio il quinto raggio del carcere di San Vittore si era riempito di ebrei che arrivavano da tutta Italia; eravamo circa settecento. 

[…] A un certo punto, credo nel pomeriggio, entrò nel raggio un tedesco che lesse i nomi di quelli che sarebbero partiti il giorno dopo per ignota destinazione. 

Erano circa 600 nomi, non finiva più. […]

Noi tutti ci preparammo a partire; ci furono distribuiti dei cestini
di carta con sette porzioni di gallette, sette di mortadella,
sette di latte condensato. Perché sette?
Perché sette? Come facevo a guardare mio Papà? Come facevo
a chiedergli la ragione di quello che ci stava accadendo?

In quelle ultime ore a San Vittore tacevo; ma ogni tanto mi allontanavo da Lui, correvo come una pazza su su fino alle grandi celle comuni dell’ultimo piano per vedere tutta quella gente sconosciuta che si preparava a partire, con gesti uguali. Era la deportazione annunciata, ne facevo parte anch’io, la principessa del mio Papà.

La mattina dopo, il 30 gennaio 1944, una lunga fila silenziosa
e dolente uscì dal quinto raggio per arrivare al cortile del carcere.

Attraversammo un altro raggio di detenuti comuni. Essi si sporgevano dai ballatoi e ci buttavano arance, mele, biscotti, ma, soprattutto, ci urlavano parole di incoraggiamento, di solidarietà
e di benedizione! Furono straordinari; furono uomini che, vedendo altri uomini andare al macello solo per la colpa di essere nati da un grembo e non da un altro, ne avevano pietà.

Fu l’ultimo contatto con esseri umani. Poi caricati violentemente su camion, traversammo la città deserta e, all’incrocio di via Carducci, vidi la mia casa di corso Magenta 55 sfuggire alla mia vista dall’angolo del telone: mai più. Mai più.
Arrivati alla Stazione Centrale, la fila dei camion infilò i sotterranei enormi passando dal sottopassaggio di via Ferrante Aporti; fummo sbarcati proprio davanti ai binari di manovra che sono ancora oggi nel ventre dell’edificio.

Il passaggio fu velocissimo.

SS e repubblichini non persero tempo: in fretta, a calci, pugni
e bastonate, ci caricarono sui vagoni bestiame. Non appena
un vagone era pieno, veniva sprangato e portato con un elevatore alla banchina di partenza.

Fino a quando le vetture furono agganciate, nessuno di noi si rese conto della realtà. Tutto si era svolto nel buio del sotterraneo
della stazione, illuminato da fari potenti nei punti strategici;
fra grida, latrati, fischi e violenze terrorizzanti.
Nel vagone era buio, c’era un po’ di paglia per terra e un secchio per i nostri bisogni. Il treno si mosse e sembrò puntare verso sud. Andava molto piano, fermandosi per ore.

Dalle grate vedevamo la campagna emiliana nelle brume dell’inverno e stazioni deserte dai nomi familiari. Gli adulti dimostravano un certo sollievo visto che il treno non era diretto al confine, alla sera però ci fu un’inversione di marcia e quella notte nessuno dormì. Tutti piangevano, nessuno si rassegnava al fatto che stavamo andando al nord, verso l’Austria; era un coro
di singhiozzi che copriva il rumore delle ruote. 

Dai vagoni piombati saliva un coro di urla, di richiami, di implorazioni: nessuno ascoltava. Il treno ripartì. Il vagone era fetido e freddo, odore di urina, visi grigi, gambe anchilosate;
non avevamo spazio per muoverci. I pianti si acquietavano
in una disperazione assoluta.

Io non avevo né fame, né sete. Mi prese una specie di inedia allucinata come quando si ha la febbre alta; quando riuscivo a riflettere pensavo che forse, senza di me, Papà avrebbe potuto scappare da San Vittore, saltare quel muro come aveva proposto un altro internato, Peppino Levi, o forse no. Mi stringevo a Lui, che era distrutto, pallido, gli occhi cerchiati di rosso di chi non dorme da giorni. Mi esortava a mangiare qualcosa, aveva ancora per me una scaglia di cioccolato; la mettevo in bocca per fargli piacere, ma non riuscivo a inghiottire nulla. 

Nel centro del vagone si formò un gruppo di preghiera: alcuni uomini pii, fra i quali ricordo il signor Silvera, si dondolarono a lungo recitando i Salmi; mi sembrava che non finissero mai: erano i più fortunati. Le ore passavano, così le notti e i giorni, in un’abulia totale: era difficile calcolare il tempo. Pochissimi avevano ancora un orologio e anche quei pochi privilegiati non lo guardavano più. Ogni tanto vedevo qualcuno alzarsi a fatica per cercare di capire dove fossimo, guardando dalle grate, schermate con stracci per riparare dal gelo quel carico umano. Si vedeva un paesaggio immerso nella neve, si vedevano casette civettuole, camini fumanti, campanili…

Prima che cominciasse la Foresta Nera, il treno si fermò e qualcuno poté scendere tra le SS armate fino ai denti, per prendere un po’ d’acqua e vuotare il secchio immondo.

Anch’io e il mio Papà scendemmo e vedemmo per la prima volta, scritto con il gesso sul vagone: “Auschwitz bei Katowice”. Capimmo che quella era la nostra meta. Il treno ripartì quasi subito e la notizia della nostra destinazione gettò tutti in una muta disperazione. Fu silenzio in quel vagone in quegli ultimi giorni. Nessuno più piangeva, né si lamentava. Ognuno taceva con la dignità e la consapevolezza degli ultimi momenti. Eravamo alla vigilia della morte per la maggior parte di noi. Non c’era più niente da dire. Ci stringevamo ai nostri cari e trasmettevamo
il nostro amore come un ultimo saluto. Era il silenzio essenziale dei momenti decisivi della vita di ognuno.

Poi, poi, all’arrivo fu Auschwitz e il rumore assordante
e osceno degli assassini intorno a noi.

FILMATI

  1. Liliana Segre, testimonianza tratta da: Viaggio nella Memoria - La Shoah nelle testimonianze di Goti Bauer e Liliana Segre, Associazione Figli della Shoah e Bongiorno Production, Milano 2006 – II parte

  2. III parte

  3. IV parte

  4. V parte

  1. Liliana Segre racconta, Proedi Editore

  2. Liliana Segre racconta - Torino, 12 maggio 2016

  3. Dario Picciau, Roberto Malini con l’interpretazione testimonianza di Liliana Segre, Binario 21, Proedi Editore, Milano 2006

  4. Liliana Segre e l'Olocausto: l'episodio di Janine

  5. Liliana Segre, Indifferenza - 26 febbraio 2016

DOCUMENTI

FOTOGRAFIE

BIBLIOGRAFIA

Daniela Padoan: Come una rana d’inverno, Milano, Bompiani 2004

Emanuela Zuccalà: Sopravvissuta ad Auschwitz. Liliana Segre fra le ultime testimoni della Shoah, Milano: Paoline Editoriale Libri 2005

Sara Fantini, Notizie dalla Shoah – La stampa italiana nel 1945, prefazione di Liliana Segre, Edizioni Pendragon, Bologna 2005

Alberto e Liliana Segre, testimonianza tratta da: AAVV, Viaggio nella Memoria – Binario 21, catalogo della mostra a cura dell’Associazione Figli della Shoah, Proedi Editore, Milano 2006, 2013, pp. 86-89

Daniela Palumbo, Liliana Segre, Fino a quando la mia stella brillerà, Piemme, Il Battello a Vapore, Milano 2015

Enrico Mentana, Liliana Segre: La memoria rende liberi, Rizzoli, Milano 2015